“Nel mondo non ci sono mai state due opinioni uguali”. Montaigne ci spiega la tolleranza

Tutti concordiamo, almeno in linea di principio, sul fatto che l’età moderna cominci laddove finisce il Medioevo: ma, non appena ci domandiamo quali siano gli autori che incarnano col loro pensiero l’avvio della modernità, le prospettive cominciano a divergere.
Proviamo ad immaginare la Francia rinascimentale, in quella Bordeaux nota per il vino e il porto, in cui vigne, lavorazione del ferro e commercio di sale si mescolano per fare della città un punto di riferimento dell’Europa dell’Ovest sia in epoca romana sia sotto il dominio inglese e in un secondo momento anche sotto quello francese.

Il nostro personaggio nasce nel 1533, in un castello, da una famiglia nobile impegnata politicamente. Viene allevato per i primi 3 anni da una balia in un povero villaggio per ordine della famiglia affinchè “potesse respirare la povertà”.
All’età di tre anni torna al castello e viene erudito da un precettore-medico di origine tedesca che gli insegna il latino. In realtà, alcune fonti dicono che parlasse latino alla mattina, greco antico al pomeriggio e francese la sera, ma di sicuro dopo i 13 anni queste lingue le conosceva perfettamente.
Non saprei dire dove, perchè e quando si forma un talento, ma ho la convinzione che questa pluralità di sollecitazioni lo abbiano reso molto sveglio e attento nell’analisi.Forse la compagnia di un medico lo ha portato verso l’analisi dell’uomo, forse il clima rinascimentale lo ha portato a interrogarsi circa le sofferenze, non lo so con certezza…ma il nostro personaggio ha un nome nobile, conosciuto meno di coloro che saranno suoi ispirati eredi quali Rosseau, Pascal o Nietzsche.

Da molti definito il padre della tolleranza, è l’esempio del primo rinascimento, padre del pensiero moderno fondato sull’accettazione della diversità e comprensione della stessa.
Non è certo da lui che verranno fuori i teorici della rivoluzione francese, eppure a lui si potrebbero far risalire le moderne scienze etno-antropologiche e psico-pedagogiche, almeno quelle basate sulla relatività degli usi e costumi o sulle necessità d’interpretare gli atteggiamenti soltanto in rapporto al contesto in cui si formano.
Questo perché egli non vede nell’essere umano alcuna coerenza di idee e comportamenti, e quando la vede, se ne preoccupa, in quanto teme d’essere in presenza di una forma di fanatismo.
Nella sua filosofia si trovano degli aspetti incredibilmente moderni, per conoscersi ed essere conosciuto creò una forma nuova, un monologo con se stesso.
I Saggi (Essais), questo è il nome della sua più grande opera.
La parola essai deriva dal verbo essayer, che significa “provare, saggiare, sperimentare, gustare” e anche “rischiare”.
Ne deriva un genere letterario del tutto nuovo, una forma aperta e frammentaria, la cui scrittura è una sorta di vagabondaggio che rifiuta deliberatamente ogni pretesa sistematica.
I Saggi non sono altro che un diario personale in cui si prendono in esame vari atteggiamenti o pensieri prevalenti nel suo tempo.
Non sono un breviario di saggezza, ma lo specchio delle paure e delle difese di un essere che si scopre frammentario e diversificato. È infatti lui stesso il soggetto di questo libro: soggetto mutevole, di cui appunto l’essere non si può descrivere, ma solo il passaggio e un passaggio “di giorno in giorno, di minuto in minuto”, adattando la descrizione al momento. Con alcuni secoli di anticipo sulle ricerche della psicologia, il nostro personaggio sperimenta come la personalità sia un aggregato provvisorio, incomprensibile e affascinante, di soggetti istantanei, un mosaico di “io” che varia secondo le contingenze. Non per nulla i Saggi sono un’opera in divenire, in continua trasformazione.
La forza di questo personaggio, filosofo, scrittore e politico (perchè dal 1581, per 4 anni, fu sindaco di Bordeaux come lo era stato in precedenza il padre) sta nella tolleranza, nell’accettazione del diverso e nell’esplicitazione della diversità.
Diversità di genere: “Le donne hanno ragione a ribellarsi contro le leggi, perchè noi le abbiamo fatte senza di loro”.
Diversità di religione: “Dopotutto significa dare un bel peso alle proprie opinioni se per esse si fa cuocere vivo un uomo”.
Diversità di pensiero: “C’è bisogno di orecchi molto resistenti per sentirsi giudicare con sincerità”.
Diversità di forma di vita: “Lasciateci dare una possibilità alla natura, perchè sa il fatto suo meglio di noi”.
Diversità di cultura: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idee delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Lui è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”.
Questo ultimo punto evidenzia il cosiddetto “relativismo culturale”, cioè l’assenza di una verità assoluta, ovvero l’assenza di una razza e una cultura superiore.
L’infinita varietà dei singoli popoli fa sì che il punto di vista dell’altro è semplicemente diverso, non inferiore, e per questo si evidenzia la tendenza di ciascun popolo a proiettare sul diverso la propria immagine culturale e a dipingere come barbarie ciò che non è nei suoi usi.
Nella sua analisi i pregiudizi, oggetto di critica, consistevano sostanzialmente in questo: giudichiamo negativamente il “diverso” appunto perché non simile a noi;  il giudizio negativo ci serve per legittimare la subordinazione del “diverso” alla nostra volontà; la vera tolleranza sta soltanto nel confronto tra le “diversità”, anche quando si è convinti di possedere la verità delle cose.
Si rispettano gli altri soltanto per essere lasciati in pace, per non essere ostacolati nel perseguimento dei propri interessi. Egli arriva persino a dire che se, in coscienza, uno può giudicare liberamente ogni cosa, è meglio però che in pubblico si conformi allo stile di vita dominante, alle consuetudini, poiché i mutamenti troppo repentini o troppo radicali portano sempre con sé degli aspetti negativi.
Oggi un atteggiamento del genere l’avremmo definito opportunistico o quietistico, anche perché contraddittorio con l’idea, positiva, della relatività delle culture. Infatti, non solo ciò che è assoluto, ma anche ciò che è relativo, se appare negativo, va modificato.
Si potrebbe definire complementare anche il punto di vista che emerge dalla riflessione di Jim Morrison nella canzone People are strange: dal confornto con il diverso si può valutare sé stessi, le proprie paure e i propri limiti. Il resto del testo, poi, continua con la percezione che l’io si costruisce a partire dal comportamento degli altri nei propri confronti.
Il personaggio di questo numero è Michel  Eyquem de Montaigne.
Scettico, pessimista, risulta nel suo modo di comunicare tramite aforismi un umanista convinto, animalista contrario alla caccia, sostenitore della natura e degli animali e soprattutto un sagace, allegro scrittore di se stesso.
Montaigne nei suoi aforismi parla di sé, come esempio di uomo comune e dice la sua.
“Non vergogniamoci di dire ciò che non ci vergogniamo di pensare”.
Montaigne muore nel suo castello il 13 settembre 1592 lasciandoci in eredità la certezza che siamo tutti arroganti sostenitori di noi stessi, ma l’importante è non meravigliarsi di questa natura e accettare l’arrogante egocentrismo del prossimo.
La conoscenza di sé è intenta a scoprire la sua forma propria per ritrovarvi quella di ciascun uomo.
E allora… proviamo a ricordare Montaigne anche solo un secondo in più al giorno e le differenze saranno più comprensibili.

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