Evaluating talents: due domande fondamentali

Quando parliamo di processi di TALENT EVALUATION, che siano essi legati ad attività di selezione o deployment le principali domande cui dare risposta sono in ogni caso due:

WHAT (cosa) & HOW (come) devo esaminare?

Le due domande sono state sviscerate in maniera interessante all’interno di un recente articolo pubblicato sulla rivista della Harvard Business School [1] che si poneva l’obiettivo di segnalare l’evoluzione che il digitale ha apportato alle tecniche di reclutamento. L’obiettivo in questa sede è quello di riportarne i punti salienti al fine di una visione più completa dei processi di selezione e sviluppo del personale, delineando una base teorica e pratica che possa servire come guida nel nostro operato quotidiano di selezionatori.
La domanda WHAT è in parte context-dependent, ovvero non è possibile traslarla su ruoli diversi (i.e. le competenze e conoscenze richieste per ricoprire in maniera efficace il ruolo di cardiochirurgo sono piuttosto differenti da quelle di un banchiere, avvocato o software developer); tuttavia c’è anche una componente legata a determinate universal characteristics che sono associate ai dipendenti in forza, indipendentemente dal proprio lavoro o ruolo. Tra questi in primis l’obiettivo è identificare i best learners e i problem solvers, ovvero risorse che tendenzialmente riescono ad aver buone capacità di apprendimento e sono maggiormente abili nel portare a termine i propri compiti. In secondo luogo è importante l’individuazione di coloro che sono maggiormente propensi a lavorare duramente, ovvero gli hardworkers che presentano un alto livello di dedizione lavorativa. Infine cercheremo di identificare coloro che sono most rewarding nella relazione agita, cioè le persone con cui – all’interno di una data interazione lavorativa – risulti maggiormente piacevole e soddisfacente collaborare.
Queste tre dimensioni relative ad employability e career success sono fortemente collegate a dei macro-tratti psicologici. Di fatti la prima fa riferimento alle dimensioni di Intelligenza (così come misurata all’interno dei test del QI), curiosità e stili di decision-making; la seconda abbraccia l’area motivazionale e la dimensione dell’ambizione; la terza l’intelligenza emotiva e le social skills.
Considerato quanto sopra, i dipendenti riconosciuti come più smart, nice e hardworking rispetto ai loro colleghi saranno coloro che sul lavoro si mostreranno maggiormente esigenti (lato deployment) e “ricercati” (lato recruiting).
La risposta alla domanda HOW trova diverse possibilità di soluzione grazie all’innovazione che vi è stata nel corso degli ultimi cinque anni in ambito talent identification. Soluzione per lo più connessa alla digital revolution e all’ubiquità degli smartphone. In particolare tre sono gli approcci meritevoli di analisi, data la loro potenzialità nel “quantificare” il talento predire la job performance.
1. Behavioral analytics. Alcune organizzazioni procedono al talent assessment attraverso il monitoraggio e la misurazione quotidiani delle attività svolte dai propri dipendenti. Di queste esempio chiave sono i grandi call-center: per anni si è tenuta traccia della quantità di telefonate, della durata dei break e del customer rating successivo ad ogni chiamata. Al giorno d’oggi questa metodologia di raccolta, a tratti esasperata, di dati quantitativi e scarsamente qualitativi, viene applicata in forma più o meno strutturata e complessa a diversi ambiti organizzativi producendo una quantità di dati impressionante che spesso le organizzazioni stesse non sono in grado né di gestire, né tantomeno interpretare. È in questa sede che nascono allora gli algoritmi: nel momento in cui l’essere umano demanda alla macchina la gestione e l’interpretazione dell’informazione al fine di creare diagnosi a livello individuale, di gruppo, organizzativo. La grande versatilità e la potenzialità degli algoritmi permette senza dubbio la creazione di risposte semplici e lineari, facendo chiarezza nell’individuazione dei talenti interni, dal momento che – anche dal punto di vista legale – le organizzazioni hanno facoltà di raccogliere dati finalizzati al perfomance assessment. Uno sviluppo interessante è in tal senso quello applicato da alcune multinazionali (come, ad es. PepsiCo) che sfruttano i dati per creare dei profili dei loro impiegati risultati “most successful” ed utilizzarli a scopo selezione. Il neo di questo approccio è evidente: il rischio di standardizzare in maniera eccessiva la performance lavorativa riconducendola alla mera raccolta di indicatori oggettivi e profilare i dipendenti in base al risultato di complessi algoritimi rischia di ridurre in modo drastico le componenti (fondamentali) legate agli aspetti relazionali, sociali e di creatività lavorativa. Per questo è fondamentale tenere a mente quelle universal characteristics emerse nel rispondere alla domanda WHAT e far sì che l’agito organizzativo – quindi la valutazione della performance – sia esito di un ponderato compromesso.
2. Web scraping. Gli algoritmi sono utilizzati anche per tradurre in dati quantitativi le attività che gli individui agiscono sul web e sui social media allo scopo di stimarne il potenziale in ambito lavorativo e fare un eventuale matching individuo-azienda. Studi recenti [2] hanno messo in evidenza come questa metodologia possa aiutare nella stima di QI e tratti di personalità, presentando livelli di accuratezza pari a ca. il 50% se messa a confronto con i risultati ottenuti tramite test scientificamente validati. Dalle “impronte digitali” lasciate sul web dai candidati è di fatto possibile raccogliere numerose informazioni sia di tipo professionale, deliberatamente messe inseme e pubblicate (es. su LinkedIn), ma anche commenti, foto, video pubblicati da altri (il che ha dato origine a una serie di siti specializzati in online reputation, attivi nel monitoraggio e “pulizia” dei contenuti non desiderati). Negli Stati Uniti la pratica del web scraping ha preso una piega decisamente eccessiva, tanto che in alcuni casi ai candidati arrivati a step finali nel processo di selezione, come parte del vetting process, è stato addirittura richiesto di condividere con l’azienda le password dei propri social media. Implicazioni etiche e legali della richiesta sono palesi, tanto che almeno 23 Stati in U.S.A. hanno introdotto norme legislative atte a contrastare o quantomeno moderare tale pratica. Tuttavia l’ostacolo è facilmente aggirabile, considerata la facilità con cui è possibile sui social media reperire informazioni sia di tipo individuale che aggregato, attraverso app  e algoritmi specifici che permettano agli utenti di condividere dati in maniera volontaria (tralasciando in questa sede la discussione sul fatto che tale volontarietà sia o meno consapevole). Anche in questo caso, come nel precedente, un ruolo fondamentale viene demandato al recruiter che detiene l’obbligo (se non morale, quantomeno etico) di trattare le informazioni “sgraffignate” online con il dovuto rispetto e la dovuta attribuzione di peso ai fini della valutazione individuale. Il fatto che l’informazione sia disponibile online e fruibile in maniera gratuita, non significa che sia il tipo di informazione di cui abbiamo bisogno o che questa riesca a darci una chiave di lettura reale / realistica della persona cui l’informazione si riferisce. Limitarne l’utilizzo ed integrarla all’interno di un accurato processo di selezione appare perciò in questa sede la soluzione professionalmente più adeguata.
3. Gamification. Nel contesto della selezione del personale il termine sta ad indicare la creazione di test di personalità e QI che siano “divertenti” da svolgere. L’assessment del personale ha fatto in tal senso numerosi passi in avanti, fornendo diversi spunti per la creazione di strumenti e modalità di misurazione che prescindessero dalle classiche e noiose batterie: risolvere enigmi, portare a termine delle sfide, accumulare punti e medaglie. L’obiettivo è quello di massimizzare la user experience in modo da incrementare le response rates. Offrendo la possibilità di completare in maniera semplice e gratuita questi test ad alto contenuto di intrattenimento online, fornendo agli utenti feedback istantanei, le aziende hanno acquisito la possibilità non solo di attrarre volontariamente le risorse ad effettuare test di valutazione, ma hanno anche acquisito in maniera gratuita e volontaria informazioni determinanti ai fini della valutazione personale. IKEA e Deloitte sono alcune tra le grandi realtà che si sono affidate a questo tipo di assessment in fase di valutazione dei potenziali candidati. Ovvio che ancora molto c’è da fare per colmare l’attuale gap tra “divertimento” e “accuratezza” di tali strumenti, senza considerare il fattore costi – decisamente maggiori rispetto allo sviluppo di un test standard – che costituirebbe senza dubbio un capitolo a parte. Tuttavia la forte componente di attivazione emotiva e cognitiva che li contraddistingue, rende questi strumenti interessanti dal punto di vista sia di selezione e sviluppo HR (aiutando a mappare e identificare una vasta platea di candidati potenzialmente interessanti) sia di employer branding (rendendo l’azienda un posto attraente agli occhi del candidato, in cui è effettivamente possibile lavorare divertendosi).
La domanda più logica da porre in questa sede – quanto questi strumenti siano in grado di competere e dare risultati validi rispetto alle metodologie tradizionali? – è di difficile soluzione, soprattutto data la “giovinezza” degli strumenti implicante l’assenza di una mole rilevante di studi scientifici indipendenti che pongano il problema in maniera critica e che riescano a valutarne in maniera longitudinale l’efficacia predittiva. Valutazioni in termini di costi, ma soprattutto in termini etici e di user experience restano una parte fondamentale su cui le aziende, nella figura di selezionatori e HR Manager, devono interrogarsi mantenendo il focus sull’individuo in quanto tale, nella sua totalità personale e lavorativa al fine di creare uno strumento che non produca dati, ma valore.

[1] Tomas Chamorro-Premuzic T. “3 Emerging Alternatives to Traditional Hiring Methods”; HBR June 26, 2015
[2] Kosinski M., Stillwell D, and Graepel T. “Private traits and attributes are predictable from digital records of human behavior”;Edited by Kenneth Wachter, University of California, Berkeley, CA, and approved February 12, 2013 (received for review October 29, 2012)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *