
Fuzzy, dicono gli americani della Stanford University, per indicare gli studenti delle materie umanistiche. Techie sono invece quelli d’ingegneria, matematica, fisica e chimica, le cosiddette “scienze dure”. Quando si discute su ciò che serve all’economia e alle imprese, l’opinione pubblica prevalente insiste sui techie. E soprattutto in Italia sono in tanti a lamentare la grave carenze di figure professionali formate per fare fronte alle nuove sfide produttive del mondo digital, di quella particolare dimensione di Industry4.0 che lega manifattura hi tech, servizi innovativi, big data e internet of things: gli ingegneri, appunto, i tecnologi, gli informatici, i tecnici.
Ma stanno proprio così, le cose? La sfida della crescita, se davvero vogliamo che sia “sostenibile ed equilibrata”, ha bisogno soprattutto di ingegneri e chimici ma anche di altre dimensioni culturali.
Scott Hartely ha scritto un saggio molto interessante a riguardo: The Fuzzy and the Techie: Why the Liberal Arts will rule the Digital World.
La tesi di Hartley è chiara: i big data sono vuoti se non li supporta il fattore umano, interpretandoli e dando loro una struttura di senso.
Bisogna aggiungere conoscenza umana e umanistica alla tecnologia, per farla funzionare in maniera ottimale. E chi può farlo meglio d’un filosofo, per cui l’ermeneutica (cioè il lavoro d’interpretazione dei testi, ma anche della realtà) è pane quotidiano? Gli algoritmi che guidano la nuova civiltà delle macchine vanno scritti, modificati nel tempo, interpretati. Devono tradurre la complessità di elementi e comportamenti, gestire fenomeni molteplici, trovare una linea tra conflitti.
Mestiere da filosofi, appunto. Da chi sa tutto di tecniche ma ne conosce e ne governa anche il senso, gli indirizzi, le questioni aperte. E di chi, proprio nel mondo segnato da macchine tecnologicamente sofisticatissime, deve non dimenticare mai l’umanità e i valori. Filosofi e ingegneri. O anche ingegneri-filosofi. E poeti-ingegneri. “Studiate humanities”, dunque, consigliano i professori di Stanford ai loro studenti.
Quello di Hartely è un messaggio analogo all’appello a essere “rinascimentali” lanciato da Steve Jobs agli studenti americani. E proprio nelle due parole italiane, Umanesimo e Rinascimento, sta la chiave di riflessione migliore: erano uomini dal sapere completo, gli umanisti, non separavano scienza da conoscenza, bellezza da matematica, equilibrio di forme architettonica da urbanistica, macchine da uomini. Avevano una sapienza complessa e completa, una solida “cultura politecnica”. Attitudini da ritrovare. E su cui fondare un rilancio della “buona scuola”.