“Ci sono, ci sono state e ci saranno un infinito numero di cose sulla Terra. Gli individui sono tutti diversi, tutti vogliono cose diverse, tutti conoscono cose diverse, tutti amano cose diverse, tutti sembrano diversi. Tutto quello che c’è stato sulla Terra è stato diverso dal resto. È questo che amo: la differenza, l’unicità di tutte le cose e l’importanza della vita”.
D.A.
Queste parole riassumono a pieno la ricerca umana e poetica intrapresa da Diane Arbus, una delle più grandi e controverse esponenti della corrente espressiva e realista della fotografia americana. I suoi scatti ci mostrano la faccia di un altro mondo, un mondo che si trova all’interno di questo ma che è ben distante da quello patinato, felice e perfetto rappresentato dai media, in totale contrapposizione alla cultura popolare degli anni Cinquanta e Sessanta, dominata dall’iconografia e dall’estetica pubblicitaria, intenta a trasmettere ideali positivi come la fiducia nel futuro, la gioia di vivere e il piacere di stare con i propri cari. A differenza di molti altri, che preferirono catturare con i loro obiettivi la bellezza e le élite, lei non desiderò mai fotografare le celebrità che passeggiavano per Manhattan, ciò che le importava era ritrarre ciò che è inconsueto, sgradevole o imbarazzante, coloro che non sono fisicamente attraenti per l’occhio umano. Per tale motivo i suoi soggetti preferiti erano persone emarginate dalla società: transessuali, nani, giganti, artisti circensi e disadattati. Ma come mai una donna borghese decide di avvicinarsi a questo mondo paradossalmente così lontano da lei e da noi? Facciamo un passo indietro e scopriamo chi è Diane Arbus (o almeno chi è stata nel corso degli anni) e quali sono stati gli eventi che l’hanno spinta ad oltrepassare lo specchio oscuro della realtà.
Diane Nemerov, il suo vero nome di battesimo, nasce a New York il 14 marzo del 1923 da genitori benestanti di origine polacca, proprietari di una celebre catena di negozi di pellicce, i Grandi Magazzini Russek’s. Ha la fortuna di crescere in un ambiente agiato ma opprimente, ovattato ed iperprotettivo. La famiglia, essendo molto sensibile all’arte, la incoraggia a sviluppare un suo talento artistico e durante la frequenza della Ethical School e della Fieldstone School, viene iniziata al disegno, prendendo lezioni private da Dorothy Thompson che era stata allieva di George Grosz. Così ha modo di conoscere gli acquarelli del maestro che ritraggono soggetti grotteschi e provocatori; questo incontro indiretto è fondamentale poichè la sua produzione fotografica ne sarà profondamente influenzata.
All’età di quattordici anni Diane incontra Allan Arbus il quale, quattro anni più tardi, nonostante il parere contrario della famiglia dovuto alla differenza tra i livelli sociali dei due giovani, diverrà suo marito ed avrà con Diane due figlie.
Allan Arbus rappresenta un punto di svolta per la vita di Diane, infatti da lui impara il mestiere di fotografa. Durante la seconda guerra mondiale Allan viene reclutato come inviato di guerra e al suo ritorno è ormai un fotografo con un’esperienza tale da permettergli di aprire uno studio privato con la moglie, “Diane & Allan Arbus”. Nel 1945 nasce la prima figlia e il loro studio inizia a vivere un periodo molto florido, costellato di lavori per magazine di moda molto famosi come come Glamour, Harper’s Bazar, Seventeen e Vogue. Si inseriscono pienamente nel vivace clima artistico di New York e Diane ha l’occasione di conoscere fotografi e illustri personaggi, tra cui, oltre a Louis Faurer e Robert Frank, anche un giovanissimo Stanley Kubrick (che citerò più avanti.)
Nel corso degli anni Diane conduce una vita ordinaria, limitandosi a rivestire i ruoli abituali e mondani imposti dalla sua posizione sociale, nel tentativo d’assomigliare il più possibile all’immagine convenzionale e superficiale di perfetta subordinata: assistente nello studio del marito, assistente dietro le quinte delle sfilate, figlia impeccabile. Finché, d’un tratto, Diane decide di rompere il ripetitivo susseguirsi della quotidianità per affermare la propria difformità individuale, distanziandosi da ogni forma prestabilita o imposta. Nel 1954 nasce la seconda figlia, Amy, e in questo periodo la relazione tra Allan e Diane comincia a deteriorarsi pesantemente tanto da costringere la coppia inizialmente ad una separazione artistica.
Sebbene durante il sodalizio professionale con il marito Diane usi con una certa frequenza la macchina fotografica, è soltanto nel 1956 che numera il rullino della sua Nikon 35 mm con #1, indicando così una precisa volontà: l’idea di un nuovo inizio. Di lì a poco naufragherà anche il matrimonio, infatti nel 1957 si separeranno definitivamente. Quest’anno segna un vero e proprio momento cruciale nella sua carriera. Si iscrive al corso della fotografa Lisette Model, nota per le sue immagini estreme in cui compaiono ubriaconi, straccioni, gente molto magra o molto grassa, molto ricca o molto povera. Questo periodo formativo muta completamente il suo modo di vedere la fotografia, e la Model riesce a tirare fuori il meglio di Diane facendole scoprire angoli della sua sensibilità che non aveva mai esplorato. Diane comincia a guardare un mondo diverso e ad osservarlo con i propri occhi. Così il suo obiettivo non riesce a distogliersi da quello da cui la gente generalmente allontana lo sguardo: il diverso, l’imbarazzante, lo sgradevole, il brutto.
Per lei si apre una nuova fase nella quale inizia ad indagare tutti quei luoghi, fisici e mentali, che le erano stati vietati o semplicemente omessi, dalla rigida educazione ricevuta in famiglia. Sembra reagire a tutte le convenzioni borghesi rassicuranti e la fotografia diventa per lei strumento di emancipazione, di libertà e di ribellione. Un modo per svincolarsi dall’opprimente american way of life degli anni Cinquanta, in cui una donna di buona famiglia era tenuta a desiderare esclusivamente una casa con giardino fuori città, un cane e dei figli.
A chi le chiese il perché si fosse dedicata seriamente alla fotografia solo a partire dai suoi 38 anni, ella rispose con sarcasmo e ironia: “Perché una donna passa la prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere questi ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di fare altro.”
Si immerge dentro New York, dal centro alla periferia, fotografando soprattutto nei luoghi pubblici più popolari: le spiagge di Coney Island, Central Park, Times square, lo Hubert’s Dime Museum e il Circo delle Pulci, le balere di Harlem e le parate in strada. Sembra spinta da una nuova curiosità, da un nuovo modo di vedere ciò che l’aveva sempre circondata. il mondo ovattato nel quale era cresciuta era stato completamente capovolto dall’eccesso che la città le regalava.
In questi luoghi Diane incontra fame e miseria, ma soprattutto rimane affascinata dai cosiddetti “freaks”, i quali le si presentano come venuti da una sorta di mondo parallelo, totalmente opposto a quello che fino ad allora era per lei il mondo “normale”. Affascinata da questo oscuro e nuovo mondo, Diane comincia a frequentare lo Hubert’s Dime Museum e, dopo aver assistito agli spettacoli da baraccone, cerca in tutti i modi di incontrarne e fotografare in privato i protagonisti.
La sua fotografia cambia radicalmente, abbandona la luce naturale e soffusa preferendo forti contrasti e luci ottenute anche con il flash (un’innovazione assoluta per quel tempo), in questo modo stacca i soggetti dal fondo per portarli su un altro piano, conferendogli così un’aurea surrealistica.
I suoi scatti ci propongono modi diversi di stare al mondo, non tanto con lo scopo di fare della fotografia sociale, di denuncia, ma con l’intento di cercare il proprio spazio in questa sconfinata varietà. Gli scatti non mostrano alcuna compassione e i soggetti non esprimono nessun disagio o sofferenza per la loro condizione, quasi a dimostrare che la stranezza è soltanto nei nostri occhi da osservatori; ne è prova il loro sguardo frontale all’obiettivo, senza alcuna inibizione a testimoniare una voglia di vivere che è più forte della vergogna. Un altro luogo in cui ritroviamo spesso Diane Arbus a fare fotografie è il Club ’82, situato nella lower Manhattan e frequentato da una serie di figure molto particolari. Fra i primi soggetti fotografati dalla Arbus in questi anni si contano Miss Stormé de Larverie, la donna che si veste da uomo, e Moondog, un gigante cieco con una folta barba e corna da Vichingo. Lei non si limita a fotografare di sfuggita questi personaggi, ma instaura con loro un vero rapporto per creare quell’empatia che permetterà ad entrambi di potersi muovere con naturalezza e quindi di mostrare il vero sé interiore. Molti di loro vengono fotografati più volte nel corso degli anni, come accade all’uomo messicano affetto da nanismo “Cha cha cha”, nome d’arte di Lauro Morales, ritratto in una delle foto più famose della Arbus.
Durante la scoperta di questo mondo parallelo vive come in un vortice, travolta da una fervente attività e da forti emozioni e si troverà a confrontarsi con i suoi demoni, lottando con la sua depressione che la logorerà un passo alla volta.
Nietzsche diceva: “chi lotta con i mostri badi a non diventare mostro a sua volta. E se guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.
Questo suo disagio potrebbe essere una delle risposte alla domanda che ho posto all’inizio dell’articolo. Perchè una donna borghese, bella, giovane e con tutte le carte in regola per poter sfondare nel mondo della moda e del cinema preferisce andare alla ricerca del proibito e dell’estremo? Probabilmente, la capacità della Arbus di tirare fuori tutto questo malessere nascosto, di palesare il male, deriva dal fatto che questo ha casa dentro di lei e ogni volta, nel fotografare il mondo, lei sta fotografando se stessa, quello che ama e insieme odia di più.
A volte però i veri mostri delle foto della Arbus non sono i freaks, ma gli altri, quelli che ostentano una indubitabile normalità. È strano ma il maggior senso di inquietudine è possibile riscontrarlo nelle foto i cui soggetti sono “normali”, come se le deformità e le stramberie si nascondessero tra l’impeccabile quotidianità borghese. Ma il genio sta proprio nello svelare storture segrete in volti e corpi all’apparenza perfettamente normali dimostrando così che la diversità si trova in ogni luogo e in ogni ceto sociale. Come hanno scritto alcuni critici, il miglior talento della Arbus era di rendere familiari le cose strane e rendere strane le cose familiari, e le sue fotografie ne sono una prova. Facciamo qualche esempio…
Identical Twins – 1967
Nel 1967 scatta una fotografia che ritrae due gemelle identiche affiancate una all’altra, quasi sovrapposte, a prima occhiata potrebbero sembrare gemelle siamesi che condividono un unico braccio. Il nero del vestito e dei capelli delle bimbe si contrappone agli elementi bianchi, al muro di sfondo e soprattutto agli occhi vitrei dei due soggetti. Ciò che trasmettono è inquietudine per la loro calma e per lo sguardo sicuro col quale sembrano presagire tempeste e drammi. «Ciao Danny. Vieni a giocare con noi?». Ricordate le gemelle in azzurro che assillano Danny durante il suo giro in triciclo per i corridoi dell’Hoverlook Hotel? Stanley Kubrick era amico di Diane ed ammiratore della sua opera, per questo le rese omaggio nella realizzazione della celebre sequenza del film Shining.
Child with a toy hand grenade in Central Park – 1962
In questo scatto l’espressione del bambino non ha niente di rassicurante, sembra uscito da un film dell’orrore. Il suo braccio destro è rigido e la mano a forma di artiglio, nell’altra mano stringe una granata giocattolo che sembra del tutto realistica, il suo viso tramutato da una smorfia terribile. Niente può esprimere meglio l’estrema aggressività di certi bambini, influenzati dai giochi di guerra o dalla guerra in cui vivono, assai diversi dai visi paffuti e sorridenti di certe pubblicità. Qui la diversità viene espressa attraverso lo stato d’animo di una persona qualsiasi che si trova in un luogo anonimo come Central Park. Si dice che la Arbus sia riuscita ad ottenere quell’effetto dopo avere innervosito il bambino girandogli a lungo attorno, fino a che la sua vera indole è emersa.
Nonostante il vivo interesse suscitato dalle sue mostre – nel 1964 e nel 1967 al Museo di Arte Moderna di New York – ed il conseguimento del prestigioso Guggenheim Fellowship nel 1963 e nel 1966, le critiche del pubblico, come si può immaginare, furono durissime e ingiuste, le sue foto scandalizzarono i benpensanti raccogliendo per molto tempo solo disprezzo e insulti, e le venne affibbiata l’etichetta di “fotografa dei mostri”.
Fu la prima fra i fotografi statunitensi ad essere celebrata alla prestigiosa manifestazione della Biennale di Venezia nel 1972. Il Metropolitan Museum of Art di New York, dopo aver acquisito l’intero archivio delle opere di Diane Arbus comprensivo di appunti, corrispondenze e foto private, le dedica una notevole retrospettiva.
Diane Arbus purtroppo cederà a quel male che sentiva dentro e, anche a causa del suo enorme successo, in costante scontro con le critiche più aspre, non sopporterà più il peso del mondo. Il 26 luglio del 1971 decide di suicidarsi, ingerendo una forte dose di barbiturici e tagliandosi i polsi nella vasca da bagno.
Curiosità
Il regista Steven Shainberg le ha dedicato un Film, “Fur, un ritratto immaginario di
Diane Arbus”. È uno sguardo immaginario della vita dell’artista (interpretata da Nicole
Kidman); Il regista ha dovuto rielaborare la sua storia perché la Fondazione Arbus non ha concesso alla produzione del film i diritti per l’utilizzazione dell’opera della Arbus.