Lavoropiù SpA sostiene la Fortitudo in qualità di sponsor istituzionale. Il Direttore Marketing di Lavoropiù, Matteo Naldi, ha incontrato il coach Matteo Boniciolli, il capitano Davide Lamma, il plurititolato Marco Carraretto e Christian Pavani, Direttore Generale della società, ai quali ha fatto un regalo…
Lo sport è passione, talento, costanza, impegno e determinazione. Il basket in particolare è anche velocità, tanta emozione, adrenalina e batticuore.
La Fortitudo ha una storia ricca di emozioni: 10 finali scudetto disputate in 11 anni, soltanto 2 scudetti vinti, di cui uno con un tiro da tre punti all’ultimo secondo, una Coppa Italia, due Supercoppe Italiane e una Coppa Italia LNP Serie A Dilettanti. Dopo essere stata per anni ai vertici della pallacanestro italiana ed europea, ha vissuto anni bui dovuti al fallimento della società. Nel 2013 si è ricostituita e ha cominciato a giocare in serie B2 tentando di risalire la classifica verso categorie più alte, più adatte ad un vasto pubblico, uno dei più numerosi e probabilmente il più caloroso d’Italia.
1. Durante un corso di Management motivazionale legato allo sport mi ha colpito una frase di coach Anastasi: “una squadra è come si allena e non lascia spazio alla casualità.” Tu che cosa ne pensi?
coach Matteo Boniciolli: Sono assolutamente d’accordo. Anche il tiro di Rubens Douglas che ha consegnato il secondo scudetto alla Fortitudo è il coronamento positivo di un percorso fatto per la costruzione di un’identità. L’allenatore era molto bravo, la squadra era una squadra molto ben allenata e c’erano delle persone di una grande solidità. Ad esempio un Gianluca Basile, che ho avuto la fortuna di allenare. Sono giocatori esemplari per il rispetto del loro lavoro e per atteggiamento.
Molti giocatori, e per me questo è il fallimento della pallacanestro italiana, hanno interpretato il basket come un divertimento. Il divertimento viene dopo, prima c’è un’attitudine e un impegno per il lavoro.
Io sposo il discorso di Anastasi al 110 per cento.
Ai ragazzi, prima di venire da Voi, ho detto che noi saremo quello che facciamo durante la settimana, poi i momenti di fortuna e sfortuna se capitano si pareggiano, però il lavoro fatto durante la settimana/periodo/anno è quello che si vede sul campo.”
2. Quando sono venuto a trovarVi nella settimana prima di Pasqua, la cosa che mi ha colpito è che gli ultimi giocatori a lasciare il campo al termine dell’allenamento sono stati proprio Davide e Marco. Avete costruito la vostra carriera in virtù di questa attitudine a lavorare duro oppure ora è una necessità visto che non siete più tanto giovani?
Davide Lamma: Le abitudini nel nostro lavoro sono importanti. L’allenamento ci consente di migliorare e di mantenere delle sicurezze. Le abitudini consolidate sono sane. Fermarsi a fare due tiri in più ti aiuta a tornare a casa sapendo che hai fatto tutto quello che dovevi fare.
Marco Carraretto: Per non lasciare niente al caso, ognuno di noi cerca di fare tutto quello che è possibile per farsi trovare più pronto il giorno della partita, che è poi il coronamento del lavoro fatto in settimana. Chiaramente per noi sportivi essere pronti nel momento in cui tutti ti guardano è qualcosa che ti dà la spinta per prepararti di più in settimana.
3. Prendo come esempio due Vostri colleghi molto famosi: Agassi e Tiger Woods. Nella sua splendida biografia, Agassi racconta che suo padre gli ripeteva: “Se colpirai 2.500 palline al giorno, 17.500 alla settimana e quindi 1 milione all’anno, diventerai un campione.” Non esiste un piano B. E così anche Tiger Woods: quando era giovane il padre gli insegnava dei colpi veramente impossibili dicendogli: “Se imparerai a fare questo tiro non avrai più paura di niente”. Tutto questo è allenamento intenzionale, cioè allenamento non come dovere ma come miglioramento continuo. La preparazione è sufficiente a diventare campioni?
Davide: L’equazione non è cosi semplice. La variante caso esiste, però come diceva il mio allenatore: “la fortuna è quando la preparazione incontra l’occasione”. Bisogna prepararsi, ma non sai quando può capitarti l’ultimo tiro di Rubens Douglas o la chiamata in serie A se non ci sei ancora arrivato. Molti giocatori pensano che due mesi di lavoro extra portino risultati immediati e invece magari ci vogliono anni. La costanza nella preparazione ti fa arrivare pronto a quel momento importante.
4. Uno studio di un’università americana molto nota sostiene che l’allenamento intenzionale abbia frutti non prima di otto, dieci anni.
Davide: Esatto. Magari ci sono squadre che fanno settimane di super lavoro e poi la domenica giocano male, oppure il contrario.
coach Boniciolli: Infatti quello che dico sempre ai miei ragazzi è che, contrariamente a ciò che pensano molti spettatori, il mestiere del giocatore è un lavoro usurante.
Innanzitutto perché i giocatori vivono con la consapevolezza che la loro prospettiva di carriera è limitata. E i giocatori bravi, che non sono necessariamente dei campioni, desiderano ottimizzare la carriera lavorando molto duramente.
E questo è il motivo per il quale molte generazioni e molti talenti si sono persi. Un esempio negativo è stato Gianmarco Pozzecco, al quale io voglio un bene dell’anima… non ho mai visto un talento come lui. Ma un vero sportivo non può permettersi neanche 15/20 giorni di vacanza. Tuttavia, per i professionisti, allenarsi da soli, quando praticano uno sport di squadra, è difficilissimo. Una volta i giocatori erano di proprietà della società e quindi c’era un reale interesse a tenerli in forma e allenati. Oggi in qualità di libero professionista andare ad allenarsi da solo non è semplice. Bisogna trovare un equilibrio… Ho conosciuto ragazzi che sono degenerati nella maniacalità. Ad esempio Gregor Fucka era un giocatore maniacale nella preparazione atletica.
Conservo sempre nel portafoglio un articolo che uscì su una famosa rivista americana, dove si diceva che in rapporto al numero di lavoratori di ogni singolo settore, le morti per infarto degli allenatori sportivi professionisti sono molto più frequenti. La mia categoria è considerata più a rischio di tutte le altre categorie professionali. Quando sei a +1 nella finale di Eurolega, gli avversari tirano e la palla rimbalza sul ferro del canestro, ti tremano le gambe.
I giocatori hanno un vantaggio, perché quando si mettono in bermuda e canottiera possono dimostrare sul campo la concretezza della loro prestazione.
La carriera dell’allenatore invece dipende da tantissimi fattori non controllabili. Ho visto della gente andare fuori di testa… Lo stress che vive un allenatore di bambini di 17 anni è lo stesso di un allenatore di Eurolega. Il coinvolgimento emotivo nei confronti di quello che fai è uguale.
5. Tu vieni da Trieste, a mio modo di vedere una città meravigliosa, multietnica e malinconica. La consideri ancora la Tua base?
coach Boniciolli: Può sembrare una cosa banale o melensa all’italiana, in realtà credo che la mia base sia la mia famiglia, non Trieste.
Trieste è una magnifica città dove tornare, ma per me è una città complicata dove vivere. Io sono un inquieto di natura, gli ultimi tre anni li ho vissuti in Asia a 7.000 km da casa ed ero solo. In realtà sto molto meglio a Bologna che a Trieste… Ho litigato anche con mia moglie per prendere casa qua.
6. Marco, Ti nomino 3 giocatori: Antonello Riva, Alessandro Abbio e Marco Carraretto. La mia militanza in Fortitudo risale al 1978 e Ti propongo quindi un giocatore degli anni ’80 come Antonello Riva, un giocatore degli anni ’90 come Alessandro Abbio e uno come te degli anni duemila. Tutti “nemici” del popolo Fortitudo. Di solito, però, il nemico è colui che fa la differenza, è un grandissimo vincente. Ora però Tu sei dall’altra parte della barricata… Come hai vissuto l’arrivo in Fortitudo?
Marco: Quando ho firmato in Fortitudo sono arrivati un sacco di messaggi dalla gente di Siena chiedendomi perché sono venuto proprio qui. Per me è stata una grande opportunità in un momento difficile della mia carriera e della mia vita personale. Dopo Forlì ero senza lavoro, dovevo mantenere la mia famiglia e si prospettavano offerte che per tanti motivi non potevo accettare, quindi, rischiavo di rimanere fermo per tutta la stagione e alla mia età non sarebbe stato sicuramente facile ricominciare.
Quindi, l’ho vissuta come una grande opportunità e ho sposato soprattutto il grande progetto che c’è qui perché, nonostante la serie in cui milita la società, c’è comunque l’ambizione e la voglia di giocare per vincere. Ed è una cosa che sento mia: non c’è niente di più bello che vincere, perché ti ripaga di tutte le fatiche che fai settimanalmente.
7. Il rapporto con il pubblico com’è?
Marco: Quando sono venuto qui mi hanno detto “Tu lo sai che noi ti odiamo?”. Però anche i tifosi hanno la speranza che io possa aiutare questa squadra a raggiungere obiettivi importanti e portare la mia esperienza e il mio bagaglio di tante finali e partite giocate per aiutare questa squadra.
Come dicevo prima, non mi sento legato a una società, poteva essere Siena ma poi purtroppo è finita male. Vivo da professionista, forse è brutto da dire, però in qualsiasi posto cerco di fare del mio meglio e raggiungere gli obiettivi che sono stati richiesti dalla società e da chi mi paga per fare quello che devo fare. Tante volte ho detto che di giocatori campioni, anche a Siena e in altre squadre dove ho giocato, ne passano, ma il mio desiderio è quello di lasciare anche un bel ricordo come persona. Per me la persona vale molto di più del giocatore. Se poi persona e giocatore possono aiutare una squadra e una città a realizzare dei sogni, ben venga.
8. Tu hai vinto 8 scudetti. 7 di fila con Siena e uno da giovane. C’è qualcuno che ne ha vinti più di Te?
Marco: Dino Meneghin, anche se dicono che lui li abbia vinti quando c’era una formula diversa nel basket italiano, cioè quando non c’erano i playoff.
9. Qual è il giocatore più forte con cui hai giocato?
Marco: Lamma (ride, ndr). A Siena mi è piaciuto tanto Henry Domercant perché è un tiratore come me. Ho avuto anche la fortuna di giocare con Charlie Smith a Udine che poi ha avuto una carriera Nba. Ricordo poi Shaun Stonerook che non era un grande realizzatore ma era un’entità presente in campo che faceva tanto. E ancora Terrell McIntyre e Bo McCalebb che per me erano dei fenomeni.
10. Per Te Davide, il giocatore più forte?
Davide: Aleksandar Djordjevic, mai visto un giocatore così. Faceva tutto con una facilità che era spaventosa. Faceva sempre la cosa giusta. Gli ho visto fare un passaggio di sinistro dietro la schiena di 20 metri al Paladozza… Indimenticabile.
11. Il giocatore più forte che hai mai allenato?
coach Boniciolli: Dejan Bodiroga non l’ho mai allenato da capo allenatore, ma solo da assistente. Lo vidi a 17 anni che giocava da playmaker contro Reggio Calabria e fece 52 punti. Il suo punto di forza era l’unione di talento, volontà e lavoro. Lui era l’affermazione assoluta che se il talento non è lavorato non arrivi da nessuna parte e, al contrario, l’affermazione del fatto che se uno è un talento soprattutto a livello mentale, anche in condizioni fisiche modeste, può arrivare ad essere un giocatore sublime.
12. Davide, per Te giocare a Bologna è come giocare in un’altra città?
Davide: Assolutamente no. L’impatto emotivo è diverso. Non è tanto la società o la maglia, è l’ambiente. Mi è capitato di tornare nella mia scuola media per un incontro con gli studenti e l’emozione è stata fortissima. Tornare a Bologna per me è stato un grande obiettivo e significa anche una conquista nella mia carriera visto che la Fortitudo è sempre stata una delle squadre più importanti d’Italia.
13. E il posto dove sei stato meglio, escludendo Bologna?
Davide: Reggio Calabria è stato un posto in cui, a quell’età, per una serie di motivi, ho vissuto il mio primo anno da numero uno. La gente mi aveva adottato. E’ un posto a cui sono molto legato. Anche l’anno scorso a Mantova è stata una bellissima esperienza.
Dopo tanti anni ho capito che i posti in cui c’è molto attaccamento alla persona, prima ancora del valore del giocatore, come diceva Marco prima, sono i posti dove lasci il cuore. In campo si dà molto di quello che si è come persona, come uomo. Apprezzo molto chi usa al massimo le proprie qualità attraverso il proprio lavoro.
14. Christian Pavani, Tu sei il Direttore Generale della Fortitudo, ma prima di tutto sei un tifoso, vero? È difficile per Te ricoprire questo ruolo all’interno della squadra per cui tifi?
Christian: È molto difficile. Il basket, in confronto al calcio, è un’emozione continua. Nel calcio hai emozioni più tranquille, nel basket le emozioni sono triplicate. Sono troppo forti.
coach Boniciolli: Io impazzisco quando una grande azienda o un grande imprenditore diventa proprietario di una squadra di basket e dice “Gestiremo questa squadra come un’azienda”. La componente emotiva è tale per cui non possono dirmi queste cose, non è possibile. Mi ricordo ancora Seragnoli dopo un derby perso… Lì ho capito la sofferenza di una persona che investe nei soldi e subisce una delusione.
Quando una persona compra una società sportiva e pensa che trasferire i criteri di un’azienda nello sport sia il punto di forza per un successo garantito, sbaglia di grosso.
Matteo Naldi chiude l’intervista regalando agli ospiti il libro: “Endurance” di Alfred Lansing che racconta la storia di Ernest Henry Shackleton, un esploratore britannico. Nell’agosto 1914 salpò per l’Antartide con la sua seconda spedizione, che aveva lo scopo di attraversare via terra il Continente Antartico da ovest a est. A sole 80 miglia dalla destinazione, la nave Endurance rimase intrappolata nei ghiacci del mare di Weddell. I partecipanti alla spedizione rimasero bloccati per 21 mesi, durante i quali diedero prova di grande coraggio e incredibile resistenza. Dopo una terribile odissea, Shackleton riuscì avventurosamente a portare in salvo tutti i membri dell’equipaggio.
Matteo Naldi: Questa è la storia di un leader, ma soprattutto di una squadra che lotta insieme per raggiungere un obiettivo… Esattamente come la Fortitudo!