Il Presidente di Unindustria Bologna Alberto Vacchi risponde alle nostre domande

Si presenti ai nostri lettori.

Ricopro la carica di Presidente di Unindustria Bologna dal 2011 e sono Presidente di I.M.A. Industria Macchine Automatiche SpA.

 

In qualità di Presidente di Unindustria Bologna, quali prospettive individua per la città per uscire definitivamente dalla crisi?

Il nostro territorio ha tutte le potenzialità per reagire a questa congiuntura economica sfavorevole. Tuttavia è evidente che una città da sola non basta a risolvere una crisi economica strutturale come quella che stiamo attraversando. In primo luogo servono misure economiche incisive  e di largo respiro a livello nazionale. A livello locale, invece, ciò di cui abbiamo bisogno non sono grandi opere, ma dei progetti concreti e realizzabili.

 

L’industria meccanica bolognese è ancora un’eccellenza italiana o ha perso terreno negli ultimi anni?

È certamente ancora oggi un’eccellenza, anche se il tessuto produttivo si è in parte trasformato per adattarsi ai cambiamenti che il mercato globale esige. Basti pensare all’automazione, che è ancora oggi una delle punte di diamante di questo territorio.

 

Oltre a ricoprire il ruolo di Presidente di Unindustria Bologna, Lei è anche a capo di I.M.A. Industria Macchine Automatiche SpA, leader mondiale nella progettazione e produzione di macchine automatiche per il processo e il confezionamento di prodotti farmaceutici, cosmetici, alimentari, tè e caffè. Come riesce a portare la Sua esperienza di imprenditore nell’Associazione degli industriali bolognesi?

Per rappresentare e difendere le aziende bisogna anzitutto comprenderne le esigenze. E non c’è sistema migliore che vivere sulla propria pelle queste stesse esigenze, nella quotidianità dell’impresa.

 

Che significato ha oggi per un’azienda far parte di un’Associazione o di una rete di imprese? Di quali vantaggi può beneficiare l’azienda associata?

Far parte di un’Associazione come Unindustria Bologna significa anzitutto poter usufruire di una serie di servizi tarati appositamente sulle esigenze delle imprese. Ma significa anche far parte di un sistema dove ciascuna azienda, piccola, media o grande che sia, ha un ruolo da giocare. Far parte di una rete di imprese, invece, significa condividere obiettivi e interessi con imprese che operano nello stesso settore, mantenendo la propria autonomia gestionale.

 

Se dovesse indicare il punto di forza del tessuto imprenditoriale bolognese rispetto ad altre aree italiane, quale indicherebbe?

Io credo che il vero punto di forza sia l’esistenza di veri e propri distretti produttivi, dove la collaborazione tra i vari attori delle filiere è costante e proficua. È un sistema che ci invidiano in tutto il mondo.

 

La Sua azienda si è sviluppata negli anni diventando una multinazionale. Che importanza riveste oggi l’apertura verso altri mercati da parte delle piccole, medie e grandi imprese bolognesi?

Oggi ci troviamo in una situazione molto particolare: la flessione della domanda interna nel nostro Paese ha fatto sì che per sopravvivere le aziende debbano cercare sbocchi all’estero. Esportare oggi è molto importante. Ma per farlo sono necessarie due caratteristiche: una grande competitività e la capacità di innovare.

 

La crisi economica di questi anni si traduce in crisi occupazionale. Quanto, secondo Lei, servizi di supporto alla gestione del personale (somministrazione, ricerca e selezione, ricollocazione professionale) possono aiutare concretamente un’azienda?

Quello del lavoro è un tema delicatissimo su cui è necessaria fare una riflessione attenta, per cui mai come oggi per un imprenditore è importantissimo poter contare su un valido supporto nella gestione del personale.

Il campione di scherma Aldo Montano intervistato da Lavoropiù

ALDO MONTANO ha vinto la medaglia d’Oro nella gara individuale e la medaglia d’Argento nella gara a squadre alle Olimpiadi di Atene 2004, la medaglia di Bronzo nella gara a squadre alle Olimpiadi di Pechino 2008 e la medaglia di Bronzo nella gara a squadre alle Olimpiadi di Londra 2012.

 

Si presenti brevemente ai nostri lettori.

Sono Aldo Montano, nickname “il manzo” livornese di scoglio, ma amante del tortellino bolognese. Sciabolatore tesserato per la polizia penitenziaria con società di allenamento la gloriosa Virtus Scherma Bologna.

 

In questi anni in Virtus ha avuto modo di vivere la città di Bologna. Se dovesse scegliere 3 parole che descrivono Bologna, quali sceglierebbe?

Affascinante, accogliente, organizzata.

 

La Sua è una famiglia di schermidori. Lei si è avvicinato allo sport da giovanissimo. Quanto è importante avviare i bambini allo sport fin da piccoli?

È molto importante. Infatti solo avvicinandoli da piccoli riescono a vivere un ambiente sano che si spera poi possa consentire loro di vivere la vita nel rispetto delle regole e dell’avversario.

 

Per quale motivo ha scelto la sciabola, lasciando da parte fioretto e spada?

Perché la mia famiglia è sempre stata di sciabolatori e quindi è stato molto naturale avvicinarmi a quest’arma.

 

Il panorama sportivo italiano è quasi completamente occupato dal calcio. Perché, secondo Lei, la scherma è meno seguita rispetto al calcio?

La scherma, immotivatamente, fa parte di quel gruppo di sport così detti minori. Intorno al totale di  questi sport ruota molto meno danaro rispetto al solo calcio e questo è sicuramente un motivo di attenzione. È da sottolineare inoltre come nel calcio o nel basket le regole che consentono di apprezzare una partita sono facilmente comprensibili, nella scherma, che non dimentichiamo è una disciplina prima di essere uno sport, questo è molto più difficile, fatta eccezione per la spada.

 

Quali sono i valori fondamentali ai quali si ispira nella vita e nella Sua carriera?

Certamente la lealtà e il rispetto dell’avversario. Secondo me sono regole dalle quali non  si può prescindere.

 

Lei ha vinto diverse competizioni nazionali e internazionali, tra cui un’Olimpiade. Vincenti si nasce o si diventa?

Certamente lo si diventa. Certo il talento è una buona condizione per partire, ma se questo non viene alimentato con un duro e costante lavoro il successo non è affatto scontato.

 

Come convivono talento e impegno nella scherma? Quanto è importante l’impegno e quanto è importante il talento?

Il talento è quel qualcosa che ti consente il così detto “colpo di classe” che nessuno si aspetta.  È evidente che questo può accadere solo se è presente un lavoro intenso e ben programmato che possa mettere in condizioni il fisico di reagire adeguatamente, altrimenti non c’è colpo di classe che tenga.

 

Quali sono le Sue passioni, a parte la scherma?

Tutti gli sport che hanno a che fare con l’acqua, cinema e motori.

 

Qual è la Sua ambizione più grande?

Poter costruire in futuro un sistema innovativo per far crescere l’immagine della scherma e sviluppare al meglio le potenzialità dei baby atleti.

 

La scherma italiana investe moltissimo sui giovani e sulla loro crescita sportiva. Quale incoraggiamento darebbe ai ragazzi che si allenano duramente e che la vedono come un modello da seguire?

Io mi alleno costantemente tutti i giorni e qui a Bologna ho trovato un ambiente particolarmente favorevole. I miei allenamenti si svolgono in più sessioni e spesso una o due di queste, vengono svolte insieme ai giovani schermidori della Virtus, in queste occasioni ho la possibilità di essere attorniato da tanti giovani che si allenano con serietà e determinazione ed io con loro ci concediamo solo pochi minuti di relax tra una sessione e l’altra. Chi fa scherma sa bene che la differenza la fanno i dettagli e per poter arrivare a livelli di eccellenza bisogna lavorare quasi maniacalmente sui dettagli. Questo porta via tempo e sacrificio.

 

Se non avesse fatto questo mestiere, cosa avrebbe fatto?

Questo mestiere (la scherma).

 

Tra 20 anni come si immagina?

Ancora tra le pedane ma con un ruolo differente.

 

Qual è il Suo motto?

No pain, no glory.

Il Professore Leonardo Callegari sulle Politiche Attive del lavoro

Può ricapitolare per i nostri lettori il Suo ruolo in CSAPSA, il Suo percorso formativo e professionale e le principali attività da Lei svolte.

Svolgo il ruolo di Presidente di CSAPSA ma prevalentemente di coordinatore dell’area formativa e di referente tecnico e organizzativo su diversi progetti, in particolare con la Provincia di Bologna – servizio Lavoro, rimanendo sul versante dell’orientamento, formazione e inclusione lavorativa e sociale di persone svantaggiate. La mia formazione è inizialmente tecnica, sono un perito meccanico, ma poi mi sono laureato in Sociologia (Scienze Politiche) a Bologna. Successivamente ho fatto diversi corsi di perfezionamento post laurea sul versante della sociologia sanitaria e dell’economia e cooperazione. In particolare, ciò che credo mi sia stato utile, anche per le funzioni che svolgo attualmente, è un corso di specializzazione biennale di Relazioni Industriali e del Lavoro a Bologna. La base formativa tecnica e la successiva formazione umanistica e sociale si sono perfettamente integrate nelle attività che svolgo.

La mia attività lavorativa è cominciata dall’essere Operatore di servizi per i minori, nei primi anni ’80, sviluppandosi poi in coordinamento di progetti di formazione in situazione e del settore di transizione al lavoro in CSAPSA. Io, come quasi tutti gli altri colleghi della cooperativa, non svolgo un’unica funzione distinta dalle altre, ma, contestualmente ai ruoli di rappresentanza rivestiti, continuo a svolgere un’attività specifica sul campo, direttamente a contatto con i destinatari finali.

Nel tempo è andato ad acquisire sempre maggiore importanza il rapporto con le imprese, nell’ambito della formazione in situazione che si basa sull’apprendimento nell’ambito di contesti reali di lavoro.

 

Cosa si intende per politiche attive del lavoro oggi?

Noi agiamo all’interno delle politiche attive del lavoro insieme a quelli che sono i servizi di welfare. Le due cose andrebbero considerate in termini strettamente integrati, il che non avviene sempre. Dentro al concetto di politica attiva del lavoro ci sta la valorizzazione di quelle che sono le potenzialità, le capacità degli individui. Avendo a mente però che il concetto di politiche attive e il concetto di attivazione che lo presuppone, andrebbero interpretati a nostro avviso avendo l’accortezza di considerare senz’altro le risorse dei singoli, che devono essere magnificate, ma consapevoli che i singoli, soprattutto in una fase di crisi economica, occupazionale, produttiva e anche culturale, non sono entità astratte ma sono entità radicate all’interno di contesti (di vita, sociali e di lavoro). Allora il tema dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate è senz’altro riconducibile alle politiche attive del lavoro e ad un concetto di attivazione che fa leva sulle responsabilità individuali e cerca di valorizzare il singolo, senza però attribuirgli una colpa e una responsabilità esclusiva quando non approda ad un esito assuntivo, soprattutto nel momento in cui il lavoro manca per tutti, anche per chi di difficoltà non ne ha.

Avendo a mente la logica dei casi marginali, il concetto di attivazione va senz’altro bene, ma va commisurato e relativizzato soprattutto quando si parla di fasce deboli con determinate problematiche non è sufficiente invocare l’attivazione del soggetto per agire in termini efficaci; perché altrimenti può diventare una grande ipocrisia, soprattutto quando le politiche attive del lavoro non riescono ad integrarsi adeguatamente con i servizi di welfare.

 

Lavoropiù SpA, da qualche anno, ha intrapreso la strada dell’inclusione lavorativa e sociale, investendo risorse ed energie nel progetto A.I.L.eS.. Secondo Lei, la certificazione A.I.L.eS. in che modo può accrescere il valore di un’impresa?

Noi crediamo che sia giusto dare un riconoscimento simbolico per dare pubblica evidenza ai comportamenti socialmente responsabili che vengono testimoniati sul versante dell’inclusione lavorativa e sociale delle persone svantaggiate. In particolare su questo versante, segmento minimale della responsabilità sociale d’impresa e tra i più trascurati, accogliere all’interno di un’organizzazione di lavoro profit una persona disabile o in situazione di disagio è una cartina di tornasole particolarmente sensibile di una responsabilità sociale di impresa non basata sulla destinazione di utili e profitti ad opere di bene. In questo caso parliamo di filantropia, cosa buona e ammirevole, ma non coincidente con la responsabilità sociale di impresa, che va invece considerata come una scelta di politica aziendale e di organizzazione del lavoro che si realizza in comportamenti, anche dei singoli membri dell’impresa.

Il fatto di rilasciare un logo può essere un primo passo per dare evidenza a quelle aziende che possono testimoniare questa capacità inclusiva e poter agire in termini di volano emulativo.

Sappiamo bene che le aziende sono governate da un orientamento prevalentemente strumentale legato alla loro mission. Non possiamo quindi aspettarci che siano enti benefici che agiscono in nome della solidarietà. Riteniamo, però, che andrebbe fortemente considerato il fatto di poter coniugare dei vantaggi per le imprese non solo dal punto di vista simbolico e di conseguenza reputazionale e di immagine, ma anche dal punto di vista economico, ad esempio con incentivi e sgravi dal territorio. A nostro avviso la responsabilità sociale d’impresa dal punto di vista inclusivo potrebbe essere riconosciuta con una posizione privilegiata e con dei punteggi aggiuntivi all’interno di capitolati di gara nella Pubblica Amministrazione.

 

La responsabilità sociale d’impresa è un concetto ampio e spesso sottovalutato o addirittura sconosciuto alle aziende di oggi. Ci aiuta a capirne l’importanza?

È generalizzata una volgarizzazione del concetto di responsabilità sociale di impresa: alcuni riducono la responsabilità sociale di impresa al rispetto della legalità.

Da una ricerca svolta alcuni anni fa dall’Università di Milano-Bicocca, gli imprenditori interpellati riconducevano l’essere impresa socialmente responsabile al fatto di rispettare la legge.

Naturalmente questo non è il concetto di responsabilità sociale di impresa.

Il fatto che si riconduca la responsabilità sociale di impresa ai comportamenti impegna maggiormente le imprese verso scelte che non dovrebbero essere soltanto figurative o di marketing. Un’altra distorsione interpretativa della responsabilità sociale di impresa è che si assumono comportamenti che possono essere considerati socialmente responsabili o si fanno comunicazioni in questa direzione per azioni di marketing che possono accrescere i vantaggi commerciali. Questo è sicuramente un risvolto della responsabilità sociale di impresa, ma non può essere la motivazione principale alla base dei comportamenti socialmente responsabili.

È necessario, quindi, metabolizzare il fatto che l’assunzione di principi di responsabilità sociale d’impresa debba essere in qualche modo interiorizzata nell’organizzazione di lavoro e gli effetti in termini di benefici possono verificarsi non nell’immediato, ma nel medio periodo. Con l’indagine che abbiamo svolto con l’Università di Bologna – Facoltà di Scienze della Formazione abbiamo rilevato che quelle imprese che testimoniavano comportamenti socialmente responsabili sul versante dell’inclusione erano anche organizzazioni in grado di uscire relativamente indenni dalla crisi economica. Allora può anche essere che chi riesce a dimostrare responsabilità sociale d’impresa sul versante dell’inclusione è perché ha un’organizzazione del lavoro capace di affrontare le sfide di un periodo critico, come quello attuale.

 

Secondo Lei, perché un’azienda dovrebbe includere al suo interno risorse disabili o svantaggiate?

Credo che l’azienda innanzitutto debba dare una risposta a una domanda…

Noi pensiamo sempre che le persone disabili o svantaggiate che chiedono di lavorare provengano dall’esterno, dimenticandoci invece che è molto frequente che le persone che costituiscono l’impianto organico dell’impresa, anche ad alti livelli, possono vivere momenti, per sfortunate contingenze (personali, familiari, di salute, incidenti ecc.) che portano ad una condizione di disabilità.

Le risorse umane in un’impresa hanno un grande valore, certo quelle forti e produttive offrono spinta e valore aggiunto all’attività e necessitano di essere motivate e di sentirsi parte dell’azienda per esprimere il massimo di se stessi.

Potrebbero essere maggiormente motivate e sentirsi maggiormente parte dell’impresa se a fronte di eventuali contingenze sfavorevoli non vengano buttate fuori dall’azienda ma possano trovare un supporto, una collocazione.

Quindi, un’organizzazione del lavoro pronta anche a questa eventualità valorizza le risorse umane e le conserva anche nei momenti di difficoltà. Questo può creare movimenti di investimento, di commitment che poi si traducono in minore conflittualità, maggiore motivazione al lavoro e, se vogliamo, anche maggiore produttività.

Allora forse le organizzazioni in grado di assorbire un quantum di inefficienza interna sono quelle che riescono a reggere meglio le turbolenze del mercato, perchè hanno una cultura che non è solo produttivistica.

 

Quali sono le principali difficoltà che incontra quando tenta di diffondere una cultura di impresa aperta alla diversità e disponibile a ricomprendere risorse deboli?

Le difficoltà sono quelle tradizionali: l’inclusione lavorativa viene percepita come un costo, come scarsa produttività, diminuisce l’efficienza, le aziende non possono esporsi perché sono in difficoltà nel mantenere i dipendenti già presenti.

Non sono molte le aziende che si dispongono naturalmente per una vocazione solidale ad accogliere le persone svantaggiate. La disponibilità spontanea spesso nasce dalla sensibilità dell’imprenditore che, anche inconsapevolmente, si fa carico della persona svantaggiata, perché magari sua conoscente. In questi casi non viene nemmeno riconosciuto come comportamento virtuoso perché è quasi una scelta personale del titolare, una scelta di dovere civico.

Questi comportamenti mostrano forse la parte migliore della nostra imprenditoria che non accoglie persone svantaggiate per un ritorno o per un interesse secondario, ma lo fa con una logica non economicistica, ma di responsabilità sociale.

Il Prof. Michele La Rosa, sociologo del lavoro, dice che le imprese non sono solo soggetti economici al di fuori della società. Sono socialmente responsabili nella misura in cui c’è una richiesta, un’aspettativa proveniente dalla società, di fronte alla quale l’azienda può reagire positivamente.

Ma aldilà del fatto che sono soggetti prevalentemente economici, quindi che sono guidati da una razionalità strumentale secondo una logica di scambio, ci sono elementi di socialità all’interno.

 

Alla luce della Sua specializzazione universitaria e delle attività che svolge con passione da anni, quali strade ipotizza per il futuro e la ripresa dell’imprenditoria italiana?

Non so dare una risposta.

Da quello che vediamo c’è una grande aspettativa verso l’economia green e su cui anche noi orientiamo lo sguardo per capire se ci possono essere delle opportunità.

Un movimento su quel versante lo vediamo. Una ripresa è auspicabile in termini compatibili con l’ambiente.

Eufranio Massi sul Decreto Lavoro: un punto di vista autorevole

Attualmente in pensione, è stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Per 10 anni ha svolto il ruolo di funzionario presso l’Ufficio di Roma con responsabilità nelle Unità che si occupavano delle controversie collettive di lavoro e del collocamento. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza (le ultime tre DTL in reggenza insieme alla titolarità di Modena). Ha fatto parte di numerose commissioni che si sono occupate di mercato del lavoro, di incentivi all’occupazione, di ammortizzatori sociali e di controversie di lavoro e collabora, da sempre, con riviste specializzate. Attualmente scrive su riviste specializzate, cura il sito dottrinalavoro.it nel quale si è trasformato il vecchio dplmodena.it e partecipa a seminari e convegni su tutta la materia del lavoro e sulle relative novità.

 

1.         Quale disposizione avrebbe elaborato nel decreto lavoro in maniera differente dal legislatore?

È facile parlare non stando sui banchi parlamentari ove alcune disposizioni sono frutto, necessariamente, di compromessi. In ogni caso, a mio avviso, con riferimento ai contratti a termine si sarebbe dovuto focalizzare il momento della percentuale del 20% non al 1° gennaio ma al momento dell’assunzione, come è stato fatto, di recente, nel Turismo, (le imprese nascono, crescono, diminuiscono l’organico anche durante l’anno), si sarebbe dovuta scrivere meglio la sanzione amministrativa prevista in caso di sforamento della percentuale del 20% (non è chiarita se è la sola ed, inoltre, non è previsto, come nella maggior parte dei casi, un possibile pagamento in misura minima attraverso l’istituto della diffida). Una piccola critica anche per l’apprendistato: è stato previsto che il  piano formativo desumibile dalla contrattazione collettiva, sia scritto in  “forma sintetica” (ma gli accordi nazionali, sovente, non si soffermano molto sui vari profili) ma è stata tolta ai datori di lavoro la possibilità di elaborare il piano nei trenta giorni successivi all’assunzione. Ciò costringerà i datori di lavoro a fare tutto prima dell’instaurazione del rapporto, cosa che, sotto l’aspetto prettamente operativo (per coloro che vogliono, ad esempio, passare al vaglio degli Enti bilaterali) potrebbe creare qualche problema, soprattutto se l’approvazione di detti Enti dovesse tardare. Ma, detto questo, il giudizio sulla Legge n. 78 è positivo, soprattutto alla luce della fine delle ragioni giustificatrici che sono state, finora, all’origine di molto contenzioso.

 

2.         Secondo Lei, la cosiddetta Legge Fornero ha avuto ripercussioni negative sull’occupazione? Se si, per quale motivo?

Si, per una certa rigidità su alcuni istituti contrattuali soprattutto sul contratto a termine (si pensi, all’intervallo tra un contratto e l’altro che era strato portato fino a 90 giorni). In ogni caso, si è fortemente “scontato” il periodo recessivo.

 

3.         Perché il contratto di apprendistato risulta ad oggi poco utilizzato dai datori di lavoro?

Perché fino al 26 aprile 2012 (data dell’entrata in  vigore piena del D.L.vo n. 167/2011) la normativa era molto rigida e parcellizzata nelle competenze. Dopo, ha inciso fortemente la crisi.

 

4.         Ritiene che l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per l’Impiego possa fare cambiare pelle ai Centri per l’Impiego come auspicato nel Jobs Act?

Non  è una norma che può far cambiare pelle: ma sono i comportamenti, le modalità, un nuovo approccio ai problemi del lavoro che lo possono fare. Sono in grado i centri per l’impiego, la cui esperienza (salvo rarissime eccezioni) non è stata particolarmente positiva di far ciò, in un momento in cui le Province nel cui ambito sono inseriti, hanno vita grama?

 

5.         Nel 2014 la disoccupazione in Emilia Romagna (fonte Sole24Ore) si attesterà al 9,00% circa; un tasso impensabile 5 anni fa. Collaborazione sempre più stretta tra Agenzie per il Lavoro e Centri per l’Impiego, introduzione di un sistema di Accreditamento Regionale per l’erogazione dei servizi e di un Sistema Dotale per il disoccupato: potrebbero essere queste, secondo Lei, le possibili novità da adottare, replicando modelli già in vigore in altre regioni italiane, al fine di agevolare la crescita occupazionale in Emilia Romagna?

Senz’altro, il sistema da Lei ipotizzato potrebbe essere positivo: in  ogni caso, anche a costo di ripetermi, serve un vero cambio di passo da parte dei centri per l’impiego.

 

6.         La Legge 78/2014 generalizza l’assenza di ragioni giustificatrici e l’acausalità tout-court nell’attivazione di un contratto di somministrazione a tempo determinato (STD) e nell’attivazione di un contratto a tempo determinato (CTD). Quali saranno, secondo Lei, i primi effetti di questa importante novità: un drastico calo del contenzioso, un aumento dell’occupazione, tutti e due i fattori od altro?

Senz’altro un  drastico calo del contenzioso, ove “magna pars” era rappresentata dai ricorsi sulle ragioni giustificatrici. L’occupazione aumenta con le opportunità di lavoro e non con le tipologie contrattuali: però non si può non rimarcare come, oggi, il datore di lavoro possa assumere, sostanzialmente, a tempo determinato per un massimo di 36 mesi senza alcuna paura circa le motivazioni alla base del contratto. Per quel che concerne, invece, il contratto di somministrazione, direi che le opportunità e lo spettro occupazionale siano di molto aumentati anche alla luce delle possibilità offerte dal nuovo CCNL, recentemente rinnovato.

 

7.         Lo Staff Leasing quale strumento di contrasto e di regolarizzazione per gli appalti non genuini. Ad oggi, però, non sembrerebbe avere ancora incontrato il successo auspicato dal legislatore. Quali i motivi secondo Lei?

Le fornisco una risposta tecnica: fino a quando l’art. 18 del D.L.vo n. 276/2003 che disciplina le sanzioni  in materia di somministrazioni irregolari resterà così’ (gli accertamenti ispettivi, se fatti bene, sono lunghi e complessi dovendosi ricostruire per ogni lavoratore trovato il numero delle giornate irregolari) le false cooperative avranno buon gioco. È necessario, a mio avviso, prevedere una  riscrittura di detto articolo con forti sanzioni amministrative quantificate “per fasce” di lavoratori utilizzati (come già avviene per il mancato rispetto dell’orario di lavoro) che colpiscano le cooperative non genuine e gli utilizzatori con possibili sospensioni dell’attività per questi ultimi in presenza di comportamenti recidivanti. Con una sanzione amministrativa che si basi sul numero dei lavoratori irregolari trovati sul posto di lavoro anche l’attività degli organi di vigilanza sarebbe più agile e veloce.

 

8.         Lei è citato spesso come un “faro”, un punto di riferimento fondamentale per la cultura giuslavoristica del nostro Paese. La Sua guida della Direzione Provinciale del Lavoro di Modena ha spesso indicato la strada a tutti gli operatori del settore. È stato difficile conciliare la burocrazia tipica del sistema pubblico nazionale e l’approccio critico e competente con cui ha sempre trattato la dottrina del lavoro?

Innanzitutto la ringrazio per il complimento. Io ho sempre cercato, investendo sul mio ruolo e trasmettendo ai miei collaboratori questo “modus operandi”, che è di servizio al cittadino, di creare un “corpo professionale” che desse interpretazioni e risposte basate sulla corretta conoscenza delle disposizioni.  Io ho sempre cercato, vivendo in prima linea i problemi operativi, di socializzare le conoscenze cercando di dare un volto più moderno e attinente alla realtà alla mia Amministrazione. Purtroppo, questa “forma mentis” non ha germogliato altrove, anzi, è stata oggetto di invidie, pur se so benissimo che è stata molto apprezzata da funzionari, quadri intermedi e personale (ma anche qualche Dirigente, soprattutto delle articolazioni periferiche). Di ciò è testimonianza la vicenda del sito dplmodena.it che fu chiuso perché non era uniforme al clichè ministeriale e poi fu riaperto nel giro di una settimana nel corso del 2012 (senza alcun riconoscimento) grazie alle decine di migliaia di operatori del lavoro e di cittadini, professionisti, associazioni, organizzazioni sindacali, lavoratori pubblici e privati che si sollevarono contro lo stesso Ministro Fornero. Quindi, è stato molto difficile conciliare questa attività con la burocrazia ministeriale (mi riferisco, principalmente a chi, in passato, ha avuto incarichi di diretta collaborazione con i Ministri pro – tempore) che, legata in via prioritaria alla salvaguardia delle posizioni acquisite ed all’esercizio del potere, non fornisce al personale del territorio, sollecitamente, i chiarimenti operativi necessari per rispondere alle richieste del cittadino utente.

Federico Poggipollini per Lavoropiù!

Federico Poggipollini, classe 1968, è un chitarrista e cantautore italiano nato a Bologna. La sua carriera è costellata di prestigiose collaborazioni… All’età di 22 anni entra a far parte dei Litfiba. Nel 1994 diventa componente ufficiale della nuova band di Luciano Ligabue. Nel 1998 esordisce come cantante solista, realizzando il suo primo CD “Via Zamboni 59″e accompagnato dalla sua band, i KKF, svolge attività Live in Italia e all’estero partecipando a numerose trasmissioni televisive. Finora ha pubblicato 3 album da solista, l’ultimo nel 2009.

Federico è stato ospite di Lavoropiù in occasione della Convention di Natale 2013. Si è esibito in un concerto live con la sua band: Giorgio Santisi al basso, Ivano Zanotti alla batteria e Alberto Linari alle tastiere.

 

 

 

 

4 aggettivi che ti descrivono.

Penso che i 4 aggettivi che mi descrivano al meglio siano entusiasmo, passione, costanza e disciplina.

 

Quando eri bambino cosa volevi fare da grande? Quando hai deciso che nella vita avresti fatto il musicista e il cantautore?

Quando ero bambino ero assolutamente attratto dal palcoscenico in tutte le forme. Forse deriva da un ego che va un po’ oltre, un po’ smisurato.

Ho deciso di fare il cantautore quando ho capito che la musica era il veicolo giusto per me. Quando sei bambino puoi decidere quali compagnie frequentare, potevi scegliere le persone che ti stavano accanto, e io venivo attratto sempre dalla compagnia dove si parlava di musica. Non era solo la musica parlata, ma anche la musica legata alla passione di uno strumento musicale, quindi legata a persone che suonavano.

E ho deciso di intraprendere questa carriera solo quando ho capito che potevo guadagnarci. Avrei potuto continuare a farla per passione personale, come tanti miei amici, però un giorno ho capito che poteva essere anche un guadagno. Ho dovuto convincere i miei genitori, soprattutto mio padre, perché non era d’accordo, e non lo è ancora, ma soprattutto in passato lo era ancora meno visto che non lo vedeva come un lavoro che ti potesse garantire un futuro.

 

Qual è la parte più faticosa o quella che ti piace meno del tuo lavoro?

Le prove mi piacciono molto, gli spostamenti negli ultimi anni li inizio ad accusare. Soprattutto la perdita di tempo nei viaggi, per la famiglia, ma anche un po’ per la noia perché mi sposto tantissimo in treno e le tratte sono veramente lunghe.

 

Tra tutti gli artisti con cui hai lavorato in carriera, con quale artista hai collaborato più volentieri?

Le esperienze che ho fatto e continuo a fare, per fortuna, sono le più durature e sono Ligabue e i Litfiba. Continuo a collaborare e la forma di collaborazione mi piace molto, mi metto in gioco in maniera diversa perché cerco di ascoltare e di capire, di prendere informazioni da persone che non hanno il mio background.

Quindi è un grande stimolo per me e credo di avere suonato con quasi tutti, non ce n’è uno in particolare. Sono una persona che non ha pregiudizi.

Mi è capitato di suonare con Caparezza e per me lui è un grandissimo artista, non so se per tutta la vita suonerei con lui, però mi piace il fatto che per un periodo della mia vita abbiamo collaborato insieme. La mia missione era quella di riuscire a entrare dentro il suo mondo. Ho la fortuna di scegliere con chi collaborare, non lo faccio in maniera forzata, le scelte che faccio sono pensate e valutate e quando decido di farle ci metto tutta l’anima.

 

Come riesci a conciliare la tua carriera di rockstar e il tuo ruolo di padre e compagno di vita?

La mia carriera da rockstar ormai è finita 7 anni fa. Sono stato per anni uomo immagine di Guitar Hero, perché mi interessava che chi si approcciasse a Guitar Hero potesse ascoltare dei classici scelti da noi. Era una sorta di regalo legato alla mia cultura musicale e metterlo in un gioco dove l’apprendimento era diverso è stato secondo me una bellissima forma di cultura.

La rockstar però penso ancora di esserla, ma in maniera diversa. Torno alle 3 o 4 di notte e alle 7 sono sveglio, non dormo più fino a mezzogiorno.

 

Il panorama della musica italiana oggi è sufficientemente variegato oppure manca qualcosa?

C’è tantissima musica in Italia per fortuna, anche all’estero, ma in Italia c’è molto fermento.

Moltissime band che suonano cercano di portare avanti un loro progetto e la cosa che manca assolutamente da parte dei media più grossi è quella di dare lo spazio e la possibilità agli italiani.

E soprattutto di trovare, secondo me, un piccolo spazio, uno spazio costante a quello che è il background, il background dell’underground.

Cioè tutto quello che è legato al sottobosco, perché per me è da li che vengono fuori caratteristiche che sono diverse e più pure di quelle tradizionali che devono funzionare per forza. Nelle cose più pure c’è sempre della genialità secondo me e manca quel tipo di spazio perché c’è tanta musica e tanta arte nel sottobosco.

 

La canzone che ti rappresenta?

London Calling. I Clash per me sono un gruppo fondamentale. Un gruppo che partendo dal punk ha portato avanti tanti generi inventando tantissimo a livello musicale, naturalmente prendendo spunto dai classici della musica. Hanno creato la novità e sono diventati un punto di riferimento nel mondo musicale.

London Calling mi rappresenta perché l’ho ascoltata in vinile tantissime volte in età adolescenziale e mi vengono i brividi ancora adesso ad ascoltarla.

 

Il concerto più bello che hai fatto?

Di concerti belli ne ho fatti tanti, ma il concerto che mi ha appagato di più è il concerto che ho fatto all’Arena di Verona nel 2008 con l’orchestra dell’Arena di Verona e Ligabue, dove lì per la prima volta mi sono trovato a suonare un concerto intero con un’orchestra.

Mi sono approcciato a un mondo totalmente diverso dal passato. Già l’Arena di Verona di per sé ha un fascino incredibile e in più avevo degli spazi musicali dove interagivo in maniera molto diretta con l’orchestra ed è stato un esperimento molto riuscito.

Furono 7 concerti e di quella settimana ho un ricordo meraviglioso proprio per il tipo di empatia che si era creata tra me e il contesto storico in cui mi trovavo, ma anche con il gruppo e l’orchestra.

 

Hai un portafortuna o un rito prima di salire sul palco?

Ho vari portafortuna… un anello, un foulard. Sono piccole cose che ogni volta devo avere, è una sorta di scaramanzia, ma se non le ho non succede niente.

Un rito ce l’abbiamo tutti, prima di un concerto diciamo una cosa tutti insieme per caricarci e unirci.

 

Visto che sei reduce dall’esperienza di X-Factor, cosa ne pensi dei talent show?

Non voglio fare quello che “se la mena troppo”… io credo che i cantanti che raggiungono la vetta grazie a un talent show debbano affrontare la musica in maniera diversa dagli altri.

Il talent show è un grandissimo trampolino di lancio, però per me è importante che si parli di musica al di là di quello che sta dietro a un talent televisivo.

Il talent show è una trasmissione che arricchisce chi la guarda perché dà informazioni e allo stesso tempo si ascolta musica. Quindi il fatto che sia una cosa che funzioni a me fa solo piacere.

 

Hai un gruppo italiano che ti piace?

Molti gruppi italiani mi piacciono. Un gruppo che mi piace molto, è un gruppo underground che ha sempre seguito una sua onda spostandosi da quella che è la canzone tradizionale italiana, sono i Verdena. Conosco solo la bassista, ma non ho mai suonato insieme a loro, è un gruppo che effettivamente non ha un suono italiano, e questo non è per forza un bene.

Sono riusciti a formulare il genere di musica americano e inglese in una chiave italiana, dando meno importanza forse alle parole, ma togliendosi dalla tradizione del nostro Paese.

Un esperimento ben riuscito con canzoni veramente importanti.

 

Grazie Capitan Fede!